Per evitare di ricorrere all’organico delle banalità cui si è solito attingere durante le festività, dobbiamo fermarci un attimo e voltarci indietro a guardare dove siamo arrivate. Dalle Suffragette e dalla rivendicazione del diritto di voto nel primo e nel tardo – davvero tardo – Novecento, ad oggi. Siamo tutte Anne Frank, Marie Curie, Jane Austen, Hannah Arendt, Rosa Luxemburg, Ipazia, Rita Levi Montalcini.
Non serve un 8 Marzo 2019 per ricordare quanto le donne abbiano lottato per arrivare fino a qui. Ma qui dove?
Mi fermo un secondo. L’adrenalina che mi ha incitata a tessere lodi della nostra forza, della nostra lotta, della nostra storia, svanisce. Mi guardo intorno, e sono in mezzo a chi, l’8 marzo, dice “non ho bisogno di un giorno per festeggiare le donne”, a mimose profumate con un bigliettino accanto che dice “Auguri”. In mezzo a mogli che non possono uscire di casa senza il consenso del loro marito, che “tanto mi dice di sì”.
Travolta da inquadrature di attori sexy che sfoggiano il sorriso, e attrici che mostrano il sedere. Investita dalla tremendamente normale sensazione di pericolo quando di sera cammino in una strada deserta e passa un gruppo di uomini che scherzano, magari qualcuno trova pure normale fischiare e fare commenti sui vestiti che indosso.
Sono in mezzo a casi di femminicidio che vengono giustificati – perché sì, ridurre la pena da 30 a 16 anni è giustificare – per il buon vecchio Delitto D’Onore, che legittima la pazzia – perché sì, uno sconto di pena a un reo confesso che ha strangolato la fidanzata per “tempesta emotiva e passionale” è legittimare. Ebbene, sì. 8 Marzo 2019. Forse abbiamo ancora bisogno di ricordarlo.
Ci sono 8 miliardi di persone al mondo, e ognuna di queste, malgrado ci sia solo una piccola parte che pensi davvero ciò che dice e faccia davvero ciò che pensa, ognuna di queste avrà l’opportunità di scrivere, in modo anche più convincente e ordinato del mio, frasi motivazionali e vanagloriose sulla nostra misera – ancora misera – situazione attuale.
Io, per scelta personale, preferisco parlare di due storie che, indipendentemente dall’8 Marzo, raccontano di Femmine: Ipazia e Rita Levi Montalcini.
Storie di donne, storie di coraggio
Forse atipicamente, sono convinta che non sia rilevante parlare dell’odio generato dall’ignoranza, o di ciò che portò alla tragica morte di Ipazia; perché davvero, parlare di chi ha fatto loro del male, di chi continua a fare del male, è un insulto a tutte quelle che hanno vissuto per fare le studiose, non per morire da martiri.
Nessuno sopporta il male per mettersi in mostra: Ipazia, Rita Levi, la gente, lo fa perché c’è qualcosa di più grande da rincorrere. Bisogna avere il coraggio di avere coraggio: sicuramente non l’ho inventata io, non ricordo chi la disse, ma di certo Ipazia ha avuto il coraggio.
Dalla matematica alla filosofia, dalla geometria all’astronomia, il vero motore di ricerca che rende una persona affascinante – non è una scusa per giustificare che alla mia età io non abbia ancora combinato niente nella vita nonostante la buona volontà – è la curiosità straripante, quella che ti porta a chiedere perché concentrarsi su un solo argomento quando c’è così tanto da scoprire. Quella che riduce chi cerca di impedirti di conoscere a una semplice correzione in penna rossa in un compito eccellente: non ci fai caso.
E come Ipazia nel 400 a.C., Rita Levi Montalcini (“L’Umanità è fatta di uomini e donne e deve essere rappresentata da entrambi i sessi”) negli anni ’50 scopre il fattore di accrescimento della fibra nervosa.
In una società maschilista, rinuncia alla famiglia e a una normale e comune vita per affermare, con una forza più potente di quella fisica, un diritto naturale: essere “Libera Pensatrice”, come le ha sempre insegnato suo padre.
E il bello di ogni libero pensatore – non di ogni persona che pensa ciò che vuole, ma di un vero libero pensatore – è che riconosce gli altri, e li stima indipendentemente dal colore della pelle, dagli organi genitali, dalla religione, e da qualsiasi barriera psicologica suggerita dalla paura di ciò che non si conosce.
Non solo l’8 marzo
Rita Levi Montalcini e Ipazia sono due donne in mezzo a miliardi di altre. Sono donne in una società – a dire il vero Due società, con un immenso intervallo di tempo l’una dall’altra, ed è questa la cosa scoraggiante – in cui essere donna significa vivere in modo passivo, essere nient’altro che una variante del maschile.
Eppure, entrambe vengono ricordate non per la società in cui hanno vissuto, ma per l’Aerometro, l’Astrolabio piatto, la filosofia, il Premio Nobel per la scoperta dell’NGF. E come loro Giovanna D’Arco, Margherita Hack, Virginia Woolf, Malala Yousafzai.
Come tutte loro, attraverso tutte loro, l’8 marzo 2019, noi non festeggiamo, ma ricordiamo e andiamo avanti, sperando che almeno l’anno prossimo non ci sarà bisogno di utilizzare la categoria di femminicidio, non si accoglierà con così tanto entusiasmo il permesso di guida in Arabia (se poi non ci si può nemmeno rivolgere al cameriere di un locale senza la presenza di un uomo), che uscire in minigonna non dovrà più essere motivo di ansia e perenne vigilanza.
Insomma, sperando che, almeno nel 2020, non ci sia più bisogno di un 8 Marzo per ritrovare la forza di continuare a cambiare le cose.
Elettra Dòmini
(immagine di copertina da La Voce di New York)
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