
La tata è una figura, per noi ragazzi del 21° secolo, pressoché sconosciuta nella vita reale; per noi, al massimo, esiste la babysitter. Ora spieghiamo la fondamentale differenza tra queste due figure apparentemente così simili: la babysitter si limita a prendersi cura del bambino per qualche ora, o al massimo per un paio di sere a settimana; la tata invece dedicava la sua vita alla prole dei propri datori di lavoro. Molti bambini del secolo scorso sono stati cresciuti dalle tate, a causa degli impegni del padre o della madre, oppure per una mancanza di istinto genitoriale che li rendeva incapaci di prendersene cura, e pertanto sono stati accuditi da queste donne prodigiose, pronte spesso a trascurare la cura dei propri di figli per crescere quelli di altri.
Il cinema e la televisione negli anni ci ha presentato diverse declinazioni di questo personaggio: ci sono state tate magiche come Mary Poppins (“Mary Poppins“), Tata Matilda (“Nanny McPhee“) e Eglantine Price (“Pomi d’ottone e manici di scopa“); tate coraggiose come Aibileen Clark (“The Help“); e tate un po’ pazze come Francesca Cacace (“The Nanny“). Sinceramente non mi vengono in mente tate meschine o cattive.
Ognuna di queste ci ha insegnato qualcosa di importante: o a credere nella magia, o che le buone azioni hanno sempre un riscontro positivo, o che non solo i bambini hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro, o che anche la persona più mite è in grado di combattere le battaglie più difficili oppure che una sorta di lieto fine arriva per tutti. Una tata è anche la protagonista indiscussa dell’ultimo film di Alfonso Cuaròn: “Roma“.
Ma facciamo un passo indietro: di cosa parla esattamente?
Siamo in Messico, nel 1970. Roma è un quartiere medio-borghese di Mexico City che affronta una stagione di grande instabilità economico-politica. Cleo è la domestica tuttofare di una famiglia benestante che accudisce marito, moglie, nonna, quattro figli e un cane. Ora concentriamoci su di lei: Cleo è india, mentre la famiglia che l’ha ingaggiata è di discendenza spagnola e frequenta i salotti altolocati. In aggiunta alla sua condizione di nativa povera, Cleo è donna: in sostanza un paria, inferiore persino a quegli uomini nullatenenti nella sua stessa situazione, che si preparano per la rivoluzione, ma dimenticano la più elementare decenza nei confronti delle proprie compagne. I compiti della giovane domestica non finiscono mai, e passano dal dare il bacio della buonanotte ai bambini al ripulire la cacca del cane dal cortiletto di ingresso della casa: quello in cui il macchinone comprato dal capofamiglia entra a stento.
Purtroppo nel Messico del 1970 tutto coesiste: la neonata ricchezza borghese e gli animali da cortile della tradizione contadina, il benessere ostentato dei padroni e la schiavitù immutabile degli indios. Tutto convive in un sistema molto fragile in cui le tensioni sociali non tarderanno a farsi sentire.
Cleo è un prodigio di efficienza e un contenitore di dolcezza senza fondo, cui attingono senza un briciolo di riconoscenza o pentimento coloro che hanno avuto la fortuna di nascere in una classe sociale più elevata, e i cui avi hanno contribuito a depredare le risorse del Paese, che appartenevano, per diritto di nascita, alla popolazione indigena. In lei si consuma una quieta apatia, quella di un essere umano così stanco di servire gli altri che “fare finta di essere morta” le sembra un gioco sorprendentemente piacevole.
In questo mondo in trasformazione (ma non necessariamente direzionato verso un reale progresso) terremoti sociali cercano di spazzare via il vecchio, mentre i gringos impagliano le proprie prede e raggirano i propri compagni affinché tutto rimanga uguale, e purtroppo ciò accade.
Cleo passa delle baraccopoli alle case dei ricchi, continua a lasciarsi sfruttare ogni giorno, augurandosi silenziosamente la morte per sé e per la sua stirpe (soprattutto se femminile). Ma la magia del film è trasformare la sua storia nel ritratto di una dignità umana così profonda e innegabile da oscurare tutto il resto della società con la sua straziante bellezza.
Con “Roma” Cuaròn torna alle proprie origini e racconta il Messico della sua infanzia, nonché il debito di riconoscenza che i figli della borghesia novecentesca di tutto il mondo devono alle tate e alle “sguattere” che li hanno cresciuti con amore e devozione. L’autore firma sceneggiatura, montaggio, direzione della fotografia e naturalmente regia, creando una storia complessa e allo stesso tempo lineare. La sequenza su cui scorrono i titoli di testa è emblematica e preannuncia tutta la narrazione a seguire: nello specchio della liscivia con cui Cleo pulisce i pavimenti appare il riflesso dell’aeroplano che porterà via chi può dalla quotidianità degradata del quartiere.
A contribuire al grande dipinto cinematografico ci sono un ambiente che buca lo schermo (di Eugenio Caballero, premio Oscar per “Il labirinto del fauno“) e la scelta di rendere protagoniste persone comuni al posto di attori di professione. Unica pecca è l’uso del bianco e nero, che mi ha complicato la visione del film. Però allo stesso tempo devo riconoscere che forse l’assenza di colore fa risaltare ancora di più le tragedie umane che passano sullo schermo; e questo non fa altro che rendere il film ancora più particolare nell’epoca dei filtri e della computer grafica. Concludendo posso affermare che questa pellicola merita i premi vinti (due Golden Globes e tre Oscar) ed è adatto a tutti, non solo agli amanti del genere storico-realistico.
Anna Pozzi