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L’elezione di Emmanuel Macron sembrava l’inizio di una nuova stagione sia per il suo paese sia per l’Unione Europea. Ma in Francia si può passare dall’erede di Napoleone all’erede di Luigi XVI in un attimo.
Combinando una grande visione strategica e un po’ di fortuna, nel 2017 Macron è stato l’autore di una campagna elettorale perfetta e ha portato il suo nuovo movimento personale “En Marche” a surclassare i partiti tradizionali sorpassandone i confini ideologici. Il successo al ballottaggio contro Marine Le Pen fu seguito da un trionfo ancora maggiore alle elezioni legislative, una sorta di plebiscito che lo ha reso uno dei presidenti più potenti di sempre. Il punto cardine del messaggio politico di Macron era difendere l’UE e rilanciarne l’idea con nuovi progetti di integrazione come un “ministro delle finanze europeo” e un esercito comune. E la prima visita all’estero del neo-presidente fu, come era prevedibile, in Germania. Angela Merkel, simbolo della stabilità europea, ed Emmanuel Macron, simbolo del rinnovamento. Un tandem che avrebbe portato l’Unione Europea al massimo delle sue potenzialità e la Francia a una posizione di maggior potere al suo interno.
Oggi, dopo un anno e mezzo, resta ben poco di quell’entusiasmo. Da allora la popolarità di Macron è caduta a picco e Merkel ha lasciato la leadership del suo partito. L’ultimo incontro tra i due si è tenuto il 22 gennaio ad Aquisgrana, in Renania, nella città che era stata scelta da Carlo Magno come centro del suo impero e quindi naturale punto d’incontro tra l’identità nazionale tedesca e quella francese. Qui Macron e Merkel hanno firmato un documento condiviso che sancisce una collaborazione senza precedenti tra i due paesi su temi quali difesa, commercio, cultura, energia. Un accordo che però riconosce di fatto l’impossibilità di un’integrazione omogenea a livello europeo, andando perfino oltre la cosiddetta “Europa a due velocità” teorizzata negli anni scorsi dalla cancelliera tedesca.
Insomma, l’Unione Europea ha qualcosa che non va. Se ne sono accorti i britannici, che hanno scelto di uscirne con un referendum; gli italiani, le cui istanze di cambiamento sono state intercettate dal governo giallo-verde; e per ultimi anche i francesi che scendono in piazza da mesi. Sabato 17 novembre dell’anno scorso si è svolto il “primo atto” e da allora le manifestazioni sono andate avanti senza sosta ogni fine settimana. L’obiettivo dichiarato è costringere il presidente Macron alle dimissioni. Centinaia di migliaia di persone hanno preso parte alle proteste organizzate dal movimento dei “Gilet gialli” e secondo i sondaggi la maggioranza della popolazione esprime sostegno ai manifestanti e alle loro richieste.
Il movimento dei “Gilet gialli” è nato come risposta all’aumento delle tasse sul carburante, pensate dal governo come incentivo alla transizione ecologica ma rivelatesi fortemente penalizzanti per i pendolari. Un’idea folle che testimonia quanto ormai sia insanabile la frattura tra le élite urbane e la popolazione rurale. La tassa sul carburante infatti è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso e le successive richieste presentate dal movimento illustrano un progetto più ampio. Aumento dei salari e delle pensioni minime, più progressività nelle imposte, fermare delocalizzazioni e privatizzazioni, più fondi per la sicurezza e l’istruzione, ribasso dei prezzi per gas ed elettricità, introduzione del referendum popolare, fine delle misure di austerità. Proposte democratiche ed egualitarie che si possono inserire in un più grande quadro di insofferenza verso la globalizzazione e verso la piega che l’Unione Europea ha preso negli ultimi anni.
Applicare all’istante tutte le misure richieste dai “Gilet gialli” sarebbe senza dubbio impossibile. Tuttavia, rigettare in toto queste rivendicazioni tacciando il movimento di “populismo”, demagogia e irresponsabilità è la peggiore risposta possibile. Ciò che Francis Fukuyama non aveva considerato nel suo saggio La fine della Storia (1992) è che la democrazia liberale per continuare ad evolversi ha bisogno di una sfida, di un sistema alternativo che la critichi e ne metta in discussione i principi. Con il trionfo del blocco occidentale sono scomparsi gli stimoli per migliorare e si è imposto il mantra del “non c’è alternativa”, sfruttato dalle élite per aggirare la sovranità popolare quando necessario. Si è persa quindi del tutto la capacità di immaginare un mondo migliore, un mondo radicalmente diverso, più umano e solidale. La quasi totale scomparsa del conflitto – dinamica fondamentale per un sano sviluppo democratico – ha contribuito alla progressiva de-politicizzazione della società. Ormai nessuno è più in grado di definire il concetto di “destra” e quello di “sinistra”, al di fuori dei giornalisti; anzi, a volte perfino loro si mostrano incapaci di muoversi tra le varie categorie.
Il panorama politico è sempre più diviso: da una parte chi riduce la politica a una semplice gestione responsabile dei conti in cui non è permesso avere idee discordanti da quelle dei presunti “competenti”; e dall’altra chi si dichiara paladino del popolo ma finisce spesso ad avere le idee troppo confuse o a fomentare l’odio accelerando ancora di più la crisi della democrazia. Sta dunque alle élite, se vogliono salvarsi, interpretare in modo profondamente diverso la situazione e dare le giuste risposte alle richieste della gente comune. Eventualità questa, almeno per il momento, ancora molto improbabile.
Federico Speme