Il nostro mondo è cambiato: è un mondo perso, disorientato, che risponde solo alla religione della corsa. La fretta è il primo valore, ma la democrazia ha bisogno di tempo; la durata è diventata un ostacolo, ma il confronto richiede lentezza. Contro la frenesia e il mantra del potere, tutto ciò che ci rimane è la Memoria.
Negli ultimi anni il mondo è cambiato troppo in fretta. Così tanto che certe volte, a guardarlo dalla medesima angolazione, non ci sembra neanche lo stesso. È un mondo un po’ strano, disegnato da una mano irregolare, popolato da tante, troppe persone, che spesso non sono neanche in grado di parlare tra di loro, figurarsi andare d’accordo.
Un mondo perso alla velocità della luce, disperso in un marasma confuso di voci, ricordi, speranze e silenzi, e diverso ogni giorno che passa. Un mondo dove la dimensione del tempo è scandita dalla durata della batteria di un telefono, in cui l’ignoranza regna sempre di più e il passare del vento si porta via tutto, che siano foglie morte prede dell’autunno, pale di mulini o un qualche tipo di ideale ormai ridotto a cenere e fumo.
Democrazia fantasma
La crisi che ci travolge, la crisi del nostro tempo è il crollo della democrazia. Una democrazia che in questi anni, nel mondo, sta perdendo sempre più terreno, che è rimasta un pallido spettro di ciò che avrebbe dovuto essere, un timido residuo di passato, dal sapore polveroso di vecchie scartoffie ingiallite dal tempo. Democrazia fantasma.
Il nostro è un periodo dettato dalla fretta, in cui l’unica dimensione possibile all’esistenza umana è quella frenetica della corsa, mentre la democrazia ha bisogno del suo tempo, necessita di confronti, dibattiti e accese discussioni tra opposte fazioni; è continuamente sottoposta all’insindacabile giudizio del popolo sovrano e non si riduce mai alla scelta di un singolo individuo ma, nel bene e nel male, si tratta di un infinito gioco di pesi e contrappesi, maggioranze e opposizioni, proteste e scambi di opinioni.
E nella storia solo da poco, almeno nel mondo occidentale, siamo arrivati a una maggioranza di stati governati da una repubblica, nonostante negli altri continenti restino numerose dittature più o meno dichiarate e anche nel cuore stesso dell’Europa alcune democrazie siano tali solo sulla carta.
Uomini e falene
L’uomo è sempre stato attratto dal potere, come una falena di fronte a una luce accecante, e, come da quella stessa luce la falena viene bruciata, così il potere consuma l’uomo finché di lui e della sua brama non resta che cenere. Per ottenerlo è sempre stato disposto anche a sacrificare qualsiasi cosa. Spesso rinuncia a una “vita normale”, all’amore e agli affetti, rinuncia all’umanità in nome di un desiderio di prevaricazione insito nella sua stessa natura che lo spinge a cercare di sottomettere altri uomini.
Il potere può avere diverse basi e legittimazioni: può nascere da un singolo oppure da un gruppo, che se ne è impossessato grazie a libere elezioni (e quindi essere, almeno all’inizio, democraticamente eletto) o con un colpo di stato: nel primo caso sarà dittatura o tirannia, nel secondo oligarchia.
Può arrivare per intercessione divina o essere appoggiato dai rappresentanti di una religione, e in questo caso prenderà il nome di teocrazia; può nascere da scontri violenti e manifestazioni e sfociare nell’anarchia. In certe situazioni nasce da personaggi che in un qualche modo diventano dittatori-sovrani – si legga “uomini forti” – che sulla paura e sull’autorità costruiscono i loro imperi.
In generale con la parola “potere” si intende il tentativo di imporre agli altri quello che noi soltanto vogliamo, in qualsiasi modo questo si riesca a fare e da qualsivoglia luogo arrivi questa legittimazione. C’è chi si aggrappa disperatamente a questa rete invisibile e annaspa tra i flutti in tempesta di un gioco a cui non sa giocare e chi ogni volta si mostra sicuro di sé e poi quando è solo, di fronte a uno specchio rotto, ogni giorno si disegna con il trucco un altro volto, un altro vuoto, per mascherare la sua reale essenza. Per nasconderla al mondo.
La dittatura siamo noi
Dicono che ormai le dittature non esistano più e che siano il lontano retaggio – pallido fantasma – di un passato che ormai siamo riusciti a dimenticare, almeno per quanto riguarda i paesi occidentali “moderni e civilizzati”. M
entre in realtà, sotto diverse forme e nuove dimensioni, è più viva che mai, verrebbe quasi da dire che “va di moda”.
O meglio, va di moda una dittatura mascherata, finta, che, dietro il costume della democrazia con i mantra del consenso alle elezioni e della sovranità popolare, cela un cuore sempre più nero.
In un mondo dove l’inettitudine è diventata quasi un vanto e non sembra più necessario nemmeno laurearsi per trovare un lavoro, in questo magma confuso e volontariamente confusionario formato da populismo, povertà, crisi economica e sociale, la dittatura torna e si fa strada nei buchi della democrazia, nelle sue falle, nei vuoti lasciati dall’istruzione, là dove l’ignoranza disegna pallide ombre che crediamo reali.
Ultimamente la dittatura va così di moda che in alcuni stati ha perfino cambiato nome, si è insinuata sotto pelle indossando una maschera innocente. La dittatura è in mezzo a noi. Certe volte la dittatura siamo noi. E la cosa terribilmente spaventosa di tutto questo è che il più delle volte neanche ce ne rendiamo conto.
Non dimenticare mai
Al di là dell’analisi storica delle cause e delle conseguenze e del gioco delle colpe e delle responsabilità, al di là del “cattivo Hitler” e dei “buoni Alleati”, oltre l’ormai ridicola dicotomia tra bene e male, in eterna lotta tra loro e eternamente e indissolubilmente legati perché formati dalla stessa materia, non resta molto se non i fatti. E le loro possibili interpretazioni.
E non ci resta altro che la Memoria, oggi più che mai, per cercare a tutti i costi di evitare che la storia si ripeta e che la follia nazista torni tra noi. Vi chiedo di pensarci, almeno una volta e non dimenticare mai. Perché è il primo passo per lasciare di nuovo che tutto ciò entri nelle nostre vite. Un pensiero, un ricordo, una preghiera e una speranza, per tutto quello che è successo. Uno sguardo al passato e uno al futuro.
Eppure negli ultimi anni sembra che anche questo costi troppo. E allora, se davvero è così, se ricordare le 15-17 milioni di vittime dell’Olocausto deve essere un sacrificio, forse è meglio non farlo. Del resto, non ha senso piangere un giorno, quello della Memoria, per mettere l’animo in pace e ridere e pensare ad altro tutto l’anno. Non ha senso condividere ogni 27 gennaio su Facebook un post #ionondimentico giusto per sentirsi a posto con la coscienza e chiudere gli occhi il tempo restante.
Maschera di ipocrisia. Eppure, allo stesso tempo, non ha senso continuare a nuotare, a perderci e ad affogare nel mare nero di questa notte sempre più scura, in cui abbiamo dimenticato anche i concetti stessi di giustizia, umanità e istruzione. Dobbiamo ripartire da qui per disegnare un nuovo futuro e non lasciare che questa lunga notte travolga le nostre anime.
Davide Lamandini
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