Il 18 gennaio 1945 l’Armata rossa entra ad Auschwitz svelandone gli orrori. I nazisti hanno provato a evacuare il campo per nascondere le tracce dei loro crimini: molti prigionieri vengono uccisi, altri muoiono durante la “marcia della morte“. Per noi, 75 anni dopo, ricordare è un dovere.
Il processo per la Liberazione inizia verso la fine del 1944, quando i vertici nazisti, dopo che l’Armata Rossa ha messo a punto l’offensiva per entrare nel cuore della Germania, si rendono conto che è necessario procedere con lo smantellamento dei campi di concentramento.
La marcia della morte
Nell’estate del 1944 l’armata sovietica riesce a conquistare i campi di sterminio di Majdanek, Belzec, Sobibor e Treblinka, situati in Polonia. In seguito, nel novembre dello stesso anno, il ministro dell’interno tedesco Heinrich Himmler ordina la distruzione delle camere a gas di Birkenau, rimaste ancora in funzione. Il 17 gennaio 1945 ad Auschwitz viene fatto l’ultimo appello; poco tempo dopo le SS cominciano a far evacuare i prigionieri, circa 60.000, costringendoli a iniziare le cosiddette “marce della morte”.
Dei prigionieri rimasti nei lager migliaia vengono uccisi prima della partenza. Gli altri, per lo più malati, muoiono nei giorni che precedono la Liberazione e i pochi sopravvissuti – circa 7.000 prigionieri – vengono soccorsi il 27 gennaio quando, verso mezzogiorno, le prime truppe sovietiche varcano il cancello di Auschwitz.
La morte a un passo dalla liberazione
Non si può però ridurre a poche righe l’orrore di quegli ultimi giorni prima della Liberazione, che molti non hanno nemmeno fatto in tempo ad assaporare. Infatti, quando il 18 gennaio 1945 comincia l’evacuazione di Auschwitz-Birkenau, non solo vengono distrutti numerosi documenti che provano l’avvenuta carneficina e fatti saltare in aria i forni crematori, ma muoiono anche circa 3.000 prigionieri, chi per debolezza, chi perché non riesce a resistere nemmeno all’inizio della “marcia della morte”, chi ucciso perché non ritenuto in grado di compiere quella camminata lunga e difficoltosa.
La fine dell’incubo non è stata meno terribile del suo inizio. Dopo la partenza degli altri prigionieri insieme alle SS, quelli rimasti nel campo hanno dovuto provare a sopravvivere senza cure, viveri, luce e calore.
Dei 9.000 prigionieri ancora presenti nel lager, la maggior parte era gravemente malata e quelli più lucidi e impavidi si sono ammalati in fretta cercando cibo e altri beni nel campo.
Finalmente la libertà
Durante gli ultimi dieci giorni prima della Liberazione, narrati anche nel capitolo finale di “Se questo è un uomo” di Primo Levi, aleggia un’aria di illusa speranza, si vocifera l’arrivo dell’armata sovietica e si lotta fino all’ultimo per non morire, non prima almeno di aver assaporato la libertà.
Poche ore prima dell’entrata delle truppe russe vengono uccisi circa 700 prigionieri ebrei e, finalmente, il 27 gennaio 1945, a mezzogiorno, l’Armata Rossa guidata dal generale Kurockin varca il cancello su cui sta incisa, a lettere cubitali, la frase “Arbeit macht frei” (“Il lavoro rende liberi”), trovandosi davanti uno spettacolo mostruoso: ombre di quelli che un tempo sono stati uomini che guardano impietriti quelle figure che simboleggiano la loro libertà; fosse comuni che strabordano di corpi; cadaveri accatastati in strada come se nulla fosse; baracche distrutte e una profonda desolazione.
Purtroppo non potremo mai comprendere l’emozione che i sopravvissuti hanno provato in quel momento, nell’istante in cui hanno capito che era finita realmente, che non sarebbero stati più un numero e sarebbero tornati uomini, che non ci sarebbero stati più appelli, né avrebbero mai più visto un uomo venire ucciso davanti ai propri occhi.
Da quel momento avrebbero potuto mangiare quanto cibo desideravano e dormire di nuovo in un letto, un vero letto e, con un po’ di fortuna, si sarebbero anche ricongiunti con la propria famiglia e gli amici.
Il dovere della memoria
Quello che è successo in quei cinque anni però non si può dimenticare in pochi secondi. Le truppe sovietiche non hanno potuto che salvare gli involucri dei deportati sopravvissuti, ma l’anima di quegli uomini, corrotta dall’orrore e dal terrore non ha potuto essere curata: il ricordo delle torture subite rimarrà scolpito nella loro memoria e non potrà mai essere cancellato.
Non siamo bravi ad imparare. Infatti, nonostante la storia insegni, continuiamo a commettere errori, ed è per questo che noi abbiamo il dovere di scolpire nella nostra memoria quello che è successo poco più di settant’anni fa.
Purtroppo le testimonianze orali non dureranno per sempre e, quando arriverà il momento, sarà compito nostro alzare la voce e raccontare ciò che è accaduto e, in parte, sta ancora accadendo, affinché i posteri non dimentichino a loro volta e facciano tesoro delle nostre parole, le tramandino come noi stiamo facendo con le loro.
Perché la vera libertà si otterrà quando le frasi dei poeti internati non ci sembreranno più “attuali”, la razza non sarà più oggetto di discriminazione tra i popoli e i diritti umani non saranno più violati.
Stella Mantani
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