Sono ben note le atrocità di cui si macchiò il Reich, ma tanti sono ancora gli interrogativi rimasti irrisolti venuti a galla col risorgere dell’Europa dalle ceneri di quella che per molti popoli fu la distruzione totale. Forse il più fastidioso è anche il più ovvio: come fu possibile?
Se l’uomo avesse il potere di innalzarsi al di sopra degli eventi e osservare lo scorrere del tempo e della Storia come una linea retta di cause e conseguenze infinite e infinitamente divisibili, l’eternità avrebbe lo stesso peso di un secondo.
Sei anni si riassumerebbero in un punto, semplicemente perché la loro quantità oggettiva è la stessa dei sei precedenti e dei sei successivi. Ma in guerra un periodo breve persino per la vita di un uomo può avere il peso di un’eternità se vissuto in prima persona, nel proprio presente.
Per quanto riguarda la Seconda Guerra Mondiale, ogni attimo fu determinante: dopo il conflitto sono state gettate le basi del mondo come oggi lo conosciamo. I sei anni di ostilità e gli altri sei, prima, di governo nazista hanno portato a una svolta epocale nella storia Europea, poiché l’esito finale della guerra ha delineato l’assetto geografico, politico e sociale del nostro Occidente.
Ma come poté il corso di tutta la Storia finire nelle mani di un singolo individuo, salito al potere nel giro di così poco tempo?
Sarebbe una facile soluzione al problema dire che tutto ebbe inizio il 20 aprile 1889, quando a Braunau venne alla luce l’uomo la cui ombra nell’inconscio collettivo ha spesso rappresentato l’immagine del demonio.
Altrettanto facile sarebbe riferirsi a una sorta di “destino”, per cui, siccome siamo quello che siamo per quello che siamo stati, il male diventa quasi una necessità e, se le cose sono andate in un certo modo, è perché così dovevano andare.
Una volta giunti a questo punto, poi, al coro di domande e supposizioni, si unisce ormai un grande classico di simili questioni storiche: se lui, Hitler, non fosse mai venuto al mondo, le vicende successive fino a oggi sarebbero state le stesse? – magari una voce un po’ ingenua, come d’altronde le altre, visto che oltre un certo confine si esce dai limiti della Storia e per proseguire ci si affida a quella che è solo un’illusione di esattezza, perché, appunto, non abbiamo il potere di vedere presente passato e futuro insieme, come una linea retta sotto il controllo del nostro sguardo.
Fu forse quello ciò che il Führer tentò di fare, impadronirsi della Storia e dirigerne, da solo, il corso; fortunatamente non ci riuscì.
Dunque, prima di tutto, per una corretta analisi del periodo che segnò l’ascesa al potere di Hitler e la nascita del Terzo Reich, non ci resta che attenerci ai fatti e conoscerli.
Il Reich: dalla culla alla ribalta
Se il futuro dittatore della Germania ebbe un rapido successo nella carriera politica, non si può dire altrettanto del suo percorso scolastico e lavorativo.
Nato a Braunau, in un paesino dell’Austria settentrionale, e figlio di Alois Hitler e Klara Pölzl, si trasferì con la famiglia a Leonding, vicino a Linz, dove il padre lo iscrisse alle scuole elementari.
Quando quest’ultimo morì nel 1903, Adolf frequentava già l’istituto tecnico “Linz Realschule”. Fu bocciato due volte e inviato a Steyr per cattiva condotta con il risultato che non conseguì il diploma di istruzione superiore e abbandonò gli studi una volta terminata la scuola dell’obbligo.
Come se non bastasse, si recò a Vienna nella speranza di poter accedere all’Accademia delle Belle Arti, ma fu respinto una prima volta nel 1907 e un’altra nel 1908, così anche il suo sogno di diventare un pittore venne infranto.
Il profilo che delinea la biografia della prima giovinezza di Hitler non coincide per niente con la potente immagine che comunemente associamo al personaggio. Tuttavia le idee dell’adolescente seduto ai banchi della Realschule avevano già preso una rotta ben precisa.
A Linz circolavano idee pangermaniche, nazionaliste e xenofobe, il cui fascino agli occhi di Hitler fu alimentato anche grazie all’assidua lettura della rivista Ostara e di altri scritti di orientamento antisemita durante il soggiorno a Vienna.
In seguito al fallimento all’Accademia, il giovane Hitler viveva nella capitale in condizioni di dura indigenza. Disoccupato e ormai privato anche della presenza della madre (nel 1907 infatti quest’ultima lo lasciò), si manteneva racimolando il necessario tra la pensione da orfano e la vendita di alcune sue illustrazioni e tele, cosicché lo scoppio della Prima Guerra Mondiale si presentò come una grande occasione per fuggire dall’estenuante quotidianità.
Non si schierò però all’interno dell’esercito austriaco, bensì emigrò nel 1913 in Germania proprio per evitarne la leva. A causa di una serie di vicissitudini, questo gli costò la cittadinanza austriaca ma, sebbene risultasse apolide, la sua richiesta di arruolarsi come volontario nelle truppe tedesche venne comunque accolta.
Fu insignito di alcune medaglie, ma anche in questo campo non ottenne molto di più. Quando il conflitto volse al termine, Hitler, ancora convinto della superiorità militare della Germania, nonostante la disfatta, a Monaco entrò in contatto con un piccolo partito a stampo nazionalista. Fu allora, alle riunioni del Partito Tedesco dei Lavoratori (SPD), che capì cosa sapeva fare meglio: parlare.
Un terreno fertile
Ma facciamo un passo indietro. Il primo degli scalini che innalzarono Hitler alla dittatura fu il contesto in cui egli si seppe inserire.
La Germania che accolse Hitler dopo la Prima Guerra Mondiale era una nazione gravata da una situazione instabile su diversi fronti. La sconfitta bellica e le somme tirate a Versailles non andavano giù allo Stato tedesco, che riconosceva nei provvedimenti presi a suo sfavore un proposito di vendetta.
Questa fu una delle cause scatenanti dei disordini che nel 1918 portarono alla rivoluzione in Germania. Obiettivo principale: la costituzione di una Repubblica. La rivoluzione però fu spontanea e slegata da particolari partiti o orientamenti, cosa che rese i socialdemocratici incerti se prendere o meno le difese dei rivoluzionari.
Alla fine il Kaiser, Guglielmo II, fuggì in Olanda e venne proclamata la Repubblica; ma le rivolte furono represse dall’unione di socialdemocratici e destra militarista, alleatisi contro il nemico comune della massa. Le fondamenta di Weimar erano dunque malferme, perché si reggevano da una parte sul tradimento della socialdemocrazia, e dall’altra su una collaborazione dettata dalla convenienza di un momento.
Va da sé che non cessò il malcontento né si risolse il problema delle dure condizioni punitive del trattato di Versailles, che avevano ridotto la Germania a una situazione tale da non riuscire più a pagare le sanzioni.
Inoltre la guerra aveva portato a stampare moneta in grandi quantità per coprire le spese: il processo d’inflazione allora iniziato vide il suo culmine intorno al ’22-’23, e, più tardi, a braccetto con l’inflazione venne la disoccupazione; insomma, fatta eccezione che per un breve periodo di respiro collocabile tra il ’24 e il ’29, lo Stato tedesco non ebbe un attimo di tregua.
A tutto questo c’è da aggiungere il pericoloso clima di intolleranza, di irritazione e di sentimento antisemita forse latente ma ampiamente diffuso. Da un quadro di questo genere è ovvio che ne traessero vantaggio i partiti di destra, come appunto l’NSDAP, il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori (ovvero l’ex SPD, che cambiò nome quando nel 1920 Hitler ne prese la guida).
Numerosi furono gli omicidi politici commessi in quel periodo dalla destra, eppure la giustizia si mostrò molto indulgente con gli assassini. Basti pensare che sui 376 casi che interessarono gli anni dal 1919 al 1922, dei ventidue imputati alla sinistra, in dieci si ricorse alla pena di morte, mentre nei restanti, ad opera della destra, non ci fu un solo condannato capitale.
In più nel 1920 la destra tentò un colpo di stato, che però fallì, come fallirà anche il putsch, l’insurrezione mossa da Hitler e dal suo partito nel 1923. Tuttavia, avvenimenti di questo genere erano prove dello spazio che in Germania stavano acquistando gli estremismi. I tedeschi si sentivano deboli, bisognosi della sicurezza di un tempo, ormai persa, bisognosi di una nuova energia – quella che Hitler metteva nei suoi discorsi.
La goccia che fece traboccare il vaso fu il crollo di Wall Street del ’29. Le ricadute in Germania portarono la disoccupazione a cifre esorbitanti: in pochi anni Hitler si ritrovò alla maggioranza, passando dal 3% del 1924 al 43% del 1932.
La sua dittatura intervenne direttamente in campo economico, senza lasciare alcuno spazio di indipendenza al mercato. In effetti, nei quattro anni successivi al ’33, quando fu democraticamente eletto Cancelliere, Hitler riuscì a risolvere quasi in toto il problema della disoccupazione, che fu affidato, almeno per l’amministrazione delle risorse in gioco, alla Reichsbank, la Banca Centrale.
Attraverso una serie di finanziamenti statali, la costruzione di numerose ferrovie, autostrade e altre opere pubbliche diede lavoro a molti cittadini tedeschi. Lo Stato però così continuava a indebitarsi, senza poi considerare che il 25% del lavoro nelle industrie era rivolto alla produzione militare: buona parte delle risorse veniva dunque investita nel potenziamento bellico – proprio come se la Germania stesse preparando una guerra.
Il primo passo: la filosofia dell’odio
Quando lo stato democratico esce fuori da qualsiasi forma di controllo, ovvero si indebolisce da solo in un clima di confusione sociale, il passaggio tra l’anarchia derivatane e il sorgere di una figura politica che si propone come l’unica in grado di riportare l’ordine, che si fa carico di tutti i problemi a fronte di una soluzione semplice e conveniente per chi se li scrolla di dosso, è un attimo.
Platone descriveva la dittatura come fase successiva alla democrazia. E in un certo senso così è andata col nazismo. Dunque è naturale che, una volta salito al potere, Hitler abbia eliminato tutti i partiti dell’opposizione e qualsiasi forma di sindacato.
La stragrande maggioranza dei totalitarismi trova tra le sue caratteristiche principali la presenza di un credo comune e l’identificazione di un capro espiatorio, giustificato dal credo comune. L’obiettivo ovviamente è insito nella natura stessa del totalitarismo, che di norma controlla la popolazione imponendo un pensiero preconfezionato secondo un percorso univoco e arbitrario.
Da un lato questo sistema si rivela molto comodo per le masse, in pratica invitate a non pensare più – un’attività del genere è ormai divenuta inutile, solo una perdita di tempo, oppure eversiva di quell’ordine appena riacquistato con tanto sforzo – dall’altro, se da una parte si frena, altrove bisogna allentare: la perdita della libertà di pensiero, la restrizione del campo personale trova sfocio in un odio collettivo autorizzato verso un bersaglio – pure qui lo stesso per tutti.
Non a caso la scelta del capro espiatorio (cioè, letteralmente, la vittima sacrificale in un rito; si noti anche l’uso della parola “olocausto”, che deriva dall’aggettivo greco ὁλόκαυστος, “holòkaustos”, per “bruciato interamente”, riferito ai sacrifici col fuoco) è spesso giustificata in parte da idee pseudo-religiose, che possiedono di per sé quella forza per cui meritano devoto rispetto e accettazione.
Gli ebrei, dunque, restavano dopo duemila anni gli assassini di Cristo. L’antisemitismo era qualcosa che, nella storia, si era presentato in più occasioni ed esisteva già prima di Hitler, era un sentimento ben noto alla comunità ebraica, tanto che anche molti ebrei, quando lo schema sociale nazista fu impostato, lo accettavano e ritenevano il rispetto delle norme antisemite la via per una convivenza pacifica tra il loro mondo e quello degli altri.
Furono addirittura diversi gli ebrei che si trovarono a contrattare o a collaborare col nazismo, o i tedeschi che, pur mantenendo buoni rapporti con persone ebree, perseguivano la causa nazista.
Hitler scrisse il Mein Kampf durante il breve periodo passato in carcere in seguito al putsch. Nell’opera (sebbene probabilmente lui stesso alla lontana fosse ebreo di origine) aveva esposto la sua teoria sulla superiorità della razza ariana e sull’inferiorità di quella ebrea, la nemica per eccellenza della purezza razziale, che tentava in ogni modo di contaminare gli ariani e che lavorava per il marxismo.
Si può facilmente sospettare che tali dottrine avessero tratto ispirazione anche dai principi dell’eugenetica, nuova forma di “scienza” nata allora di recente: questa disciplina si riproponeva di potenziare le qualità psico-fisiche di un certo gruppo di individui attraverso gli sforzi della genetica.
Nel 1935 furono poi promulgate le leggi di Norimberga, che non fecero che confermare una situazione che da tutti, tedeschi ed ebrei, era considerata ormai “normale”. Nuovo fu solo il divieto dei matrimoni misti e l’espulsione degli ebrei da molti uffici pubblici e dall’istruzione statale.
Infatti, oltre a imporre un pensiero comune, era necessario eliminare tutte le altre forme di pensiero, cioè quelle che non si conformavano all’ideologia nazista, allo stesso modo in cui Hitler, per assicurarsi la maggioranza, aveva fatto fuori ogni altro partito. Questa fu la ragione di fondo del fenomeno dei Bücherverbrennungen, i roghi di libri.
Il secondo passo: il culto dell’immagine
Nel 1948 George Orwell si immaginava una società totalitaria in cui non solo erano organizzate sessioni dedicate all’odio del nemico, non solo non esisteva più alcuna forma di libertà, ma il controllo della ragione era anche esteso a quello dell’uso del vocabolario.
Dalla testimonianza del filologo Victor Klemperer sappiamo che, in un certo senso, pure il nazismo fece della lingua uno strumento di influenza. Ai famosi esempi di eufemismo volti a mascherare una realtà ben più cruda (per esempio, la cosiddetta “soluzione finale”) si aggiunse l’uso propagandistico di un lessico che rimandasse alla sfera dell’azione diretta, della potenza, del potere di un impero.
Di conseguenza, il Reich proponeva un modello che non dava indicazioni unicamente su una linea di pensiero, bensì tracciava anche il profilo di un’immagine ideale alla quale rifarsi.
L’immagine che il nazismo proponeva di sé era a metà tra l’idea di bellezza nordica e quella della καλοκαγαθία (“kalokagathìa”) greca, la stessa delle statue classiche – a contribuire a quest’ultima convinzione fu l’errata teorizzazione da parte di Hitler di una parentela della razza ariana con i popoli greci del mondo antico.
L’ariano doveva essere un misto perfetto di eleganza, sicurezza di sé e forza, tutto ciò che mancava al popolo tedesco dopo la Prima Guerra Mondiale. L’identificarsi in queste caratteristiche indubbiamente piaceva.
In contrasto a questa rappresentazione si poneva quella del popolo ebraico, cui si attribuiva stereotipi senza alcun principio se non lo scopo di demonizzare l’avversario rendendolo brutto, deforme, diverso.
C’è da dire però che non solo gli ebrei furono vittima dell’odio nazista: in generale bisognava epurare la società dai “più deboli”, ebrei, zingari, handicappati, omosessuali o sovversivi che fossero. E trovare qualcuno di più debole fa sempre sentire più forti.
Hitler stesso si impegnò nella costruzione di una propria immagine, era stato pittore ed era perfettamente consapevole dell’importanza dell’impressione che si dà alle masse: lui era il salvatore della Germania, lui era la guida spirituale, lui la guida militare del futuro impero, lui il Führer, il fulcro attorno al quale tutto ruotava.
Si descriveva come un uomo moralmente integro, lontano dall’alcol, dal fumo e dalle donne, ostentava un’iniziale politica di pace, quando il potenziamento dei mezzi bellici era già in corso.
Ma purtroppo la propaganda non si limitava a manifesti e frasi ad effetto: esisteva un vero e proprio Ministero, diretto da Joseph Goebbels, incaricato di controllare qualsiasi ambito culturale in vista del consenso a favore del Reich. Dall’istruzione nelle scuole – dove la grammatica si faceva con gli slogan e l’aritmetica con la guerra – all’arte, al cinema, alla stampa di qualsiasi tipo, alla radio e a ogni altra forma di intrattenimento.
E poi, come dimenticare le cerimonie, in quei filmati che spesso si vedono nei documentari: piazze di dimensioni incommensurabili ricoperte di più teste di quante se ne possano immaginare in qualsiasi luogo, tutte rivolte verso gli stendardi con la svastica e ipnotizzate dalla retorica di un solo uomo, di una sola mente folle.
Scriveva Hitler nel Mein Kampf: “La propaganda non deve indagare la verità oggettiva […] ma deve presentare solo un aspetto della verità, che è favorevole al proprio scopo. […] il potere ricettivo delle masse è molto limitato e la loro comprensione è debole. […] Stando così le cose, ogni propaganda efficace deve limitarsi a poche cose essenziali e quelle devono essere espresse per quanto possibile in formule stereotipate. Questi slogan devono essere ripetuti con insistenza fino a che anche l’ultimo individuo venga a cogliere l’idea che gli è stata messa davanti.”
Il terzo passo: accendere il motore
Tutta l’efficacia della propaganda nazista si basava però su un unico fattore, quello che potremmo definire come il carburante che fece funzionare perfettamente ogni singolo ingranaggio del Reich – pur andando contro qualsiasi legge logica. Perché se c’è una cosa che non segue alcuna logica, quella cosa è la paura. La paura immobilizza, e quando si è immobili si perde la propria identità, si diventa burattini nelle mani del primo che si impadronisce dei nostri fili.
Prima la paura sugli oppressi: dovevano sentirsi soli, delle nullità, vergognarsi senza un perché, dormire sonni agitati senza un motivo e non sperare in altro se non che le cose non peggiorassero, sempre senza una ragione.
Veniva poi la paura sulle masse: due aspetti di paura, la paura del nemico e la paura della mancanza di paura del nemico. L’omofobia e la fobia della repressione dell’omofilia. In poche parole la demonizzazione di categorie etniche e sociali creava tabù e razzismo, e la repressione di qualsiasi forma di ribellione a questo sistema o di rifiuto di fronte agli ordini del terrore divideva fra di loro le persone, le rendeva diffidenti le une verso le altre.
Non c’era da fidarsi di nessuno e nessuno poteva fare affidamento su nessuno. Ma questa seconda paura toccava anche gli oppressori: la gerarchia stessa delle forze del partito era costruita in modo tale che il singolo individuo fosse sempre in rivalità con i compagni e con il superiore, il singolo ufficio in rivalità con gli altri uffici. Eventi di violenza pubblica come fu, ad esempio, la Kristallnacht (1938) servirono anche a questo.
E la paura era stata scelta come mezzo proprio per la sua proprietà immobilizzante. Il nazismo aspirava alla perfezione classica, alla purezza della razza; ma l’uomo comune è imperfetto, non agisce secondo le leggi della natura, non è prevedibile, non è logico. Non esiste nella libertà umana alcuna necessità che imponga il rispetto dei principi di azione-reazione o causa-effetto.
Allora la soluzione è far sì che l’uomo diventi la macchina perfetta. Ed è la paura l’unico farmaco ad avere il potere di svuotare fino in fondo l’uomo della sua identità, della sua umanità e quindi della sua imperfezione. La paura resetta. Il lavaggio del cervello propagandistico installa il nuovo programma.
Il principio dell’“uomo-automa” fu il centro dell’obiettivo che ebbero i campi di concentramento. L’assenza di ogni “perché” resettava tutto, negli oppressi e negli oppressori. Se negli stadi iniziali si era pensato all’espulsione degli ebrei dalla Germania, prima volontaria e poi forzata e in massa, se si era pensato di destinare – con progetti improbabili volti solo a mascherare una decisione già presa – intere aree geografiche, addirittura isole, alla formazione di una sorta di “Stato ebraico” in nome, per alcuni, della causa sionista, con la cosiddetta “soluzione finale” si risolveva il problema.
Lo sterminio sarebbe potuto avvenire in loco: perché raccogliere i “nemici del nazismo” in campi di lavoro, se non per distillare quel prezioso carburante, se non per livellare all’altezza della perfezione entrambi, giudeo e nazista? Una volta persa l’identità, tutti sono uguali, tanto. È vero, forse l’atrocità di azioni così esplicite avrebbe risvegliato le coscienze, ma niente fino ad allora era ancora riuscito a smuoverle, almeno in una buona parte della popolazione. Aveva troppa paura e la macchina funzionava troppo perfettamente.
Se il regime nazista è crollato con la fine della Seconda Guerra Mondiale, la paura è sempre stata una costante del vivere. Sembra quasi un paradosso, ma è la paura del male a generare il male. Ed è l’ignoranza a generare la paura. Perché ciò che più ci fa paura è ciò su cui non possiamo avere alcun controllo, ovvero ciò che non conosciamo.
Oggi, nell’era in cui l’immagine di sé si dà con un selfie e la propaganda si fa a suon di tweet, è molto facile cadere nella disinformazione e prestare ascolto indiscriminato a tutto ciò che ci viene proposto. È così che nasce il timore – e gli effetti li stiamo già vedendo.
Informiamoci invece e, soprattutto, ricordiamo. Ricordare non significa avvilirsi per il passato, anzi, significa avere il coraggio di alzare lo sguardo verso la realtà che sta davanti a noi. Perché è comodo dimenticare, ma ogni volta che ne sentiamo il bisogno, dovremmo preoccuparci: significa che abbiamo già paura.
Elisa Ciofini
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- “Abbiamo solo perso la via“, di Elettra Dòmini.
- “Le macchine del Reich“, di Elisa Ciofini.
- “Dentro un campo di concentramento“, di Matilde Boni.
- “Con gli occhi di una bambina“, di Federica Marullo.
- “E venne il giorno“, di Stella Mantani.
- “Si impara in fretta a chiudere gli occhi“, di Arianna Solmi.
- “Come è lunga la notte“, di Davide Lamandini.
- “Democrazia e populismo“, di Andrea Bonucchi.
- “Alle radici dei totalitarismi“, di Luca Malservigi.
- “L’ultima lezione di Hannah Arendt“, di Davide Lamandini.