Politica

Brexit – Ultimo atto (?)

Dopo il complicato rinvio annunciato lo scorso 11 dicembre, è stato finalmente deciso che l’accordo su Brexit negoziato dal governo di Theresa May affronterà il voto del parlamento il 15 gennaio. Se l’accordo sarà approvato, il Regno Unito uscirà dalle istituzioni europee ma farà ancora parte del mercato unico per un periodo di transizione esteso almeno fino al 31 dicembre 2020, durante il quale ulteriori colloqui definiranno i nuovi rapporti bilaterali con l’Unione. È prevista anche una clausola di sicurezza, detta “backstop”, che mantiene un confine aperto tra Irlanda del Nord, parte del Regno Unito, e Repubblica d’Irlanda, paese membro dell’UE.

Secondo May il suo è “il migliore accordo possibile” e in caso di bocciatura sarà “niente Brexit”. Nonostante la caparbietà del primo ministro però, è assai improbabile che un voto in parlamento le sia favorevole. Dalla sua nascita, infatti, il governo si regge su una maggioranza divisa e pericolante (su 650 seggi 317 sono dei conservatori e 10 degli unionisti nordirlandesi). Tra le fila del Partito Conservatore si contano decine di “hard Brexiters” che definiscono l’accordo sbilanciato a favore dell’UE e quindi un tradimento del voto referendario. I membri di questa fazione hanno già innescato, senza successo, un voto di sfiducia interno al partito e sperano, nel caso in cui il parlamento votasse no, di rimpiazzare Theresa May con un loro candidato.

La situazione di stallo in parlamento (fonte: Election Maps UK)

L’ex ministro degli Esteri Boris Johnson, voce dei ribelli Tories, ha dichiarato che una Brexit No Deal (senza accordo) sarebbe l’opzione “più vicina a ciò che la gente ha votato” nel referendum del 2016. Un simile scenario però provocherebbe caos alle frontiere e imprecisati danni economici oltre che ulteriori esiti ancora imprevedibili. Nondimeno, gode di un consistente appoggio popolare tra gli elettori più conservatori che hanno fondato gruppi di pressione volti a questo scopo, come Leave Means Leave. La crescente sfiducia nel governo May ha inoltre “resuscitato” lo UKIP, il partito nazionalista ed euroscettico che con l’abbandono di Nigel Farage sembrava aver ormai esaurito il suo scopo.

La linea del Partito Laburista è quella di votare contro in modo da far cadere il governo e andare a nuove elezioni, con molte chance di ottenere la maggioranza e negoziare quindi un nuovo accordo. Tuttavia, la situazione non è facile neanche per i laburisti, la cui posizione sul tema è sempre stata un po’ ambigua. Così come gli altri partiti socialisti e socialdemocratici europei, anche il Labour deve fare i conti con i mutamenti sociali causati dalla globalizzazione e dalla crisi economica. Il suo leader Jeremy Corbyn, provenendo dall’ala più radicale, non è mai stato un convinto sostenitore dell’Unione Europea, ritenendola poco democratica e fautrice di politiche anti-egualitarie. Per questo motivo, nonostante la campagna elettorale a favore del Remain, dopo il referendum c’è chi ha incluso la sua scarsa convinzione tra le cause della vittoria del Leave.

In realtà il tiepido europeismo di Corbyn si spiega con l’esigenza di tenere insieme settori di elettorato sempre più distanti: la classe media delle grandi città e i giovani, schierati per il Remain, e la “working class” impoverita delle periferie, schierata per il Leave. Per questo motivo negli ultimi due anni ha parlato il meno possibile di Brexit, preferendo incalzare il governo su altre questioni quali povertà, servizi pubblici, sicurezza e sanità. Si calcola infatti che circa un terzo degli elettori laburisti abbiano votato per lasciare l’UE, troppi per non tenerne conto.

Fin dai primi giorni dopo il fatidico 23 Giugno 2016, però, non è mai mancato chi, scontento per le modalità del voto, ha suggerito l’opzione di un secondo referendum. La campagna per il Leave si sarebbe servita di fake news e avrebbe sostenuto le proprie tesi con argomentazioni demagogiche e disoneste approfittando della diffusa ignoranza sul tema. Quest’opzione ha guadagnato molto consenso negli ultimi mesi tanto che l’opzione di un voto popolare con possibilità di bloccare l’accordo è ritenuta probabile da molti analisti. Per il People’s Vote sono schierati i Liberal Democratici e il Partito Verde oltre che almeno un centinaio di singoli parlamentari dei maggiori partiti. La marcia organizzata lo scorso 20 ottobre dall’omonimo gruppo a Londra ha portato in strada almeno 450.000 persone, il numero più alto dalle proteste del 2003 contro la guerra in Iraq; e a partecipare sono stati moltissimi giovani che si sentono penalizzati da quello che è stato senza dubbio un voto generazionale.

Due anni e mezzo dopo, l’opinione generale dei britannici non è cambiata di molto e resta estremamente polarizzata. Nei sondaggi si registra un lieve aumento del Remain, ma con un vantaggio non troppo lontano da quello stimato alla vigilia del voto (secondo la media: Remain 53% e Leave 47%). Un secondo referendum analogo al primo sarebbe comunque incerto. Molto meno popolare è invece l’accordo negoziato da Theresa May che a confronto col Remain non avrebbe speranze (secondo YouGov: Remain 46%, Accordo di May 26%, non so 26%). L’opzione di rimanere parte dell’Unione Europea vincerebbe anche un referendum a tre alternative (secondo YouGov: Remain 42%, Accordo di May 13%, Leave No Deal 25%, non so 19%).

Infine, da non sottovalutare sono i potenziali effetti di Brexit su Scozia e Irlanda del Nord, regioni dotate di grande autonomia dove il Remain ha prevalso rispettivamente con il 62% e il 56%. In entrambi i territori sono presenti movimenti politici indipendentisti e tendenzialmente europeisti che potrebbero sfruttare l’occasione per lasciare il Regno Unito. In caso di No Deal il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon convocherebbe di sicuro un nuovo referendum per l’indipendenza. Uno scenario simile potrebbe ripetersi in Irlanda del Nord, già teatro di atroci violenze nel periodo dei Troubles, i cui indipendentisti già pregustano la tanto agognata riunificazione dell’isola.

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