Musica

Non piangere Liù – Giacomo Puccini, 160 anni di musica

La foschia bianca e nera di un ricordo lontano, il cappotto a doppio petto abbottonato, i baffoni all’insù e la sigaretta pendente dalle labbra, in un’espressione forse un po’ beffarda o magari solo assorta – quella un tempo dello studente che entrava in classe “solo per consumare i pantaloni sulla sedia”, come di lui fu poi detto. Eppure ci doveva essere qualcos’altro: quello sguardo trasognato, che sembrava superare la materia e penetrare in una dimensione non visibile fatta di suono e sentimento, nascondeva la profondità di un artista. A centosessant’anni da un simile ricordo possiamo affermarlo con certezza. Il 22 dicembre 1858 nasceva a Lucca uno dei più grandi operisti italiani, Giacomo Puccini.

Di influenze veriste e grande appassionato di Wagner, rimase orfano del padre, anch’egli musicista, all’età di cinque anni; la morte del genitore portò la famiglia in condizioni di ristrettezze economiche, cosa che tuttavia non impedì al giovane Puccini di frequentare prima il Liceo Musicale Pacini di Lucca e poi, grazie agli aiuti della regina Margherita e di un amico di famiglia, il conservatorio di Milano, città dove conobbe Pietro Mascagni. Così, pochi anni dopo, nel 1884, esordì con la sua prima opera teatrale, Le Villi, dal cui successo ebbe origine una vitalizia collaborazione con l’editore Giulio Ricordi. Seguirono l’Edgar e successivamente la Manon Lescaut; fu proprio questa a consacrare Puccini al pubblico internazionale. Da allora il Maestro affidò i testi delle sue opere alla cura dei librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, di cui riuscì a sfruttare al meglio l’abilità e a cui più volte diede del filo da torcere, dimostrandosi spesso esigente. Tuttavia pare che lui stesso non avesse una vasta cultura letteraria – anzi, si racconta che scrivesse filastrocche volgari ed espresse in un cattivo italiano.

Infatti, se da una parte si andava delineando la sua personalità artistica, dall’altra il carattere del personaggio era già forgiato. Sensibile e a momenti riservato, ma al tempo stesso bugiardo, irrequieto, disincantato e sopra le righe, affezionato all’atmosfera tranquilla di Torre del Lago, o come lui ammetteva, “affetto da torrelaghite acuta”, amante della caccia, della compagnia degli amici, dei motori e delle donne. Quest’ultima fu una passione che lo tormentò tutta la vita: il rapporto di Puccini con le donne è uno degli aspetti più discussi della sua carriera e della sua esistenza. Dilaniato da tendenze opposte, visse l’infanzia in una famiglia in prevalenza femminile e in un clima di affetto ossessivo e frustrato, e più tardi, in età adulta, rimase legatissimo alla convivente e poi moglie Elvira Bonturi, che però non esitò a tradire ogni volta che ne ebbe l’occasione. Inoltre, a rispecchiare questo intreccio di relazioni, si aggiunge l’universo immaginario delle eroine che popolarono le sue opere, forse ciascuna di esse ispirata alla musa del momento e al tempo stesso riconducibile al mito di Elvira.

Dopo la Manon, incarnazione della ribellione a qualsiasi convenzione che non fosse l’amore e la passione, Puccini diede alla luce una delle sue opere più famose, la Bohéme. Stavolta fu il turno di Mimì, innocente, simbolo di promesse d’amore giovanili destinate a sfumare con la morte. La prima del dramma si tenne nel febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino. La trama si snoda attorno alla storia di un gruppo di quattro artisti e letterati squattrinati e in particolare intorno all’amore tra uno di essi, Rodolfo, e la vicina di casa, Mimì, malata di tubercolosi. Dal brio iniziale dell’atmosfera parigina e della vivacità dei giovani si passa in un malinconico crescendo alla tragedia e alla fine di tutte speranze che il rapporto tra i due aveva promesso.

Simbolo poi del massimo eroismo pucciniano è Tosca, che arriva all’assassinio del perfido prelato Scarpia – di lei invaghito – pur di poter fuggire col pittore Cavaradossi, condannato alla fucilazione per avere nascosto il bonapartista Angelotti. Anche in questo caso però la vicenda sfocia in un dramma: la fucilazione doveva essere solo una messinscena, eppure Cavaradossi non si alza al segnale della donna. Tosca allora decide di seguirlo persino nella morte e si getta dai bastioni di Castel Sant’Angelo nel Tevere al grido di “Scarpia, davanti a Dio!”. Puccini inaugurò così il nuovo secolo con arie destinate a rimanere nella storia, della portata di E lucevan le stelle, e con un’opera in cui il trionfo dell’azione e la forza del teatro passano in primo piano.

In Madama Butterfly l’esito finale è simile ma la causa ben diversa. L’ambientazione giapponese, su cui Puccini condusse diverse ricerche, fa da sfondo a un amore tradito. L’appena quindicenne Chocho-san (“Madama Farfalla”), sposata nel cuore e nei fatti al generale statunitense Pinkerton e di lui incinta, viene abbandonata quando questi torna in patria, ma non di meno crede tenacemente in un futuro ritorno del marito. Le sue aspettative non vengono deluse: Pinkerton torna, purtroppo non da solo. La “Madama Farfalla” spicca il volo con l’aria Tu, piccolo iddio rivolta al figlio, unico segno rimasto dell’amore passato, e si suicida. L’opera non ebbe immediato successo: alla Scala il pubblico l’accolse con risa e boati – probabilmente un fiasco organizzato dal concorrente di Ricordi, Sonzogno. Ma ad accorgersi del valore del dramma era già stato Pascoli. “Caro nostro e grande Maestro,/la farfallina volerà”, scriveva a Puccini nel 1904.

La fortunata collaborazione con i due librettisti terminò quando Giacosa morì, precisamente nel 1906. Ebbe dunque inizio un periodo difficile nel percorso artistico di Puccini, che fu coinvolto anche in uno scandalo privato. Oltre ai numerosi progetti abortiti ne uscirono comunque lavori del valore de La Fanciulla del West, de La Rondine e del Trittico.

Ultima e più travagliata opera del Maestro fu invece la Turandot, composta quando fu diagnosticato a Puccini un tumore alla gola; altro dramma a soggetto esotico, ambientato però in Cina in un contesto temporale a metà fra il favolistico e l’onirico e tratto da un racconto teatrale di Carlo Gozzi. La fiaba narra di una principessa dal cuore di ghiaccio, che sottopone ai suoi spasimanti una serie di enigmi; chiunque riuscirà a risolverli otterrà la sua mano, chi no la decapitazione. Il principe Calaf ha successo nell’impresa e tuttavia Turandot si rifiuta di sposarlo. Calaf le concede di venir meno alla promessa solo se indovinerà il suo nome prima dell’alba. Sebbene la gelida Turandot rivesta un ruolo di primo piano sia nella fiaba di Gozzi che nell’opera di Puccini, un attento esame ci svelerà che però non è lei la vera protagonista, come invece sembrerebbe. Liù, schiava di Calaf e di lui innamorata, si sacrifica per il giovane, di cui nemmeno sotto tortura rivela l’identità. E anche se all’opera fu aggiunto un finale da uno degli allievi di Puccini, Franco Alfano, è la morte della povera Liù a porre il vero termine alla fiaba. Con l’ultima nota per la fanciulla, suonata in contemporanea dal più alto e da uno dei più bassi tra gli strumenti dell’orchestra, ottavino e clarinetto basso, si spengono Puccini e il suo personaggio, nel 1924. Questo potrebbe darci una delle chiavi di lettura del trascorso di questo grande artista e delle storie delle sue eroine, che, guidate dal filo conduttore dell’amore, giocano in bilico tra la vita e la morte: forse c’era un po’ di Puccini in tutte loro, un po’ di quell’uomo, disilluso e tremendamente donnaiolo, che a sua volta doveva nascondere una forte sensibilità femminile.

Arturo Toscanini, alla prima del 26 aprile 1926, fermò la rappresentazione appena dopo quelle ultime note e, senza eseguire il resto dell’opera, si rivolse al pubblico dicendo “Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.”

Di seguito il link Youtube per ascoltare una delle più conosciute arie della Turandot, Nessun Dorma, nell’interpretazione di Giuseppe Di Stefano.

Elisa Ciofini

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