Cronaca

Medicina – I problemi, le soluzioni

Coca-Cola o Sprite? Carne o pesce? Mare o montagna? Domande quasi rituali, che tutti qualche volta avremo scambiato con un conoscente o un amico. Dal lavoro alla cucina, dallo sport alla scuola, sono tante le antinomie su cui si basano i nostri gusti, le nostre preferenze. Queste bipartizioni servono per carpire le informazioni essenziali di qualunque cosa: formano come un personale blocchetto degli appunti nella nostra mente. Con il tempo poi si impara ad ampliare questo block-notes, cancellando le vecchie informazioni, acquisendone di nuove, riscrivendo quelle già assimilate. Quando ci si trova davanti una domanda più difficile, raccogliamo tutte le informazioni che abbiamo appuntato sul nostro taccuino, e sulla base di queste formuliamo una risposta. Talvolta ci imbattiamo in una domanda per la quale le informazioni nel nostro taccuino non bastano: che fare? Il buonsenso suggerirebbe di rintracciare fonti autorevoli, confrontarle e infine cercare quale sia, a proprio giudizio, la migliore. Nell’era social, però, la spasmodica richiesta di informazione immediata minaccia di far saltare questo passaggio. Anche se il nostro blocchetto degli appunti è completamente vuoto, vogliamo rispondere lo stesso. La tendenza a semplificare problemi complessi ha preso piede in moltissimi ambiti della nostra vita: ci sentiamo in dovere di esprimerci su ogni cosa, in ogni conversazione. Uniamo tutto ciò alle notizie user-friendly reperibili su Internet, dove, manipolando i dati, si può sostenere ogni tesi e il suo contrario: otterremo così la disinformazione. Ovvero un risultato catastrofico. Specie se i vostri interlocutori, anziché argomentare scientificamente la superiorità della Marvel rispetto all’universo DC, si avventurano in discussioni molto complesse.

Un esempio? Il numero chiuso a Medicina. Pare diventato molto di moda, negli ultimi anni, spulciare i pro e i contro di questa scelta. Le proposte sono quasi sempre pirotecniche, meno spesso utili. Ecco allora, per chi volesse aggiornare la propria voce “numero chiuso”, un riassunto dei temi più importanti di cui prendere nota.

La facoltà di medicina

I dati di quest’anno sono impietosi: su 67.005 candidati, solo 9.779 di loro, un esiguo 14,6%, hanno potuto iscriversi alla facoltà di Medicina. Se si parlasse di infettivologia, il famigerato test, con una soglia di mortalità superiore all’80%, sarebbe una delle malattie più mortali di sempre.

Umorismo a parte, il dato ha bisogno di essere interpretato: possiamo riassumere le analisi in due correnti opposte. La prima crede che una percentuale così bassa sia figlia di una selezione molto esigente, che permette l’accesso solo ai migliori. La seconda invece, a cui appartengono migliaia di studenti, ritiene che questo numero sia una vergogna: molti di loro hanno già fatto ricorso al TAR del Lazio per irregolarità. L’accusa mossa più di frequente rimane quella di incostituzionalità, perché il numero chiuso rappresenterebbe un ostacolo a un’università libera e giusta. Accanto ad essa, però, ne sono nate molte altre: dalle irregolarità nei plichi ai presunti suggerimenti, fino al “sistema di condizionamento dell’aria troppo alto”. Un così largo utilizzo delle vie legali è giustificato dal fatto che, per molti, il ricorso rappresenta un’ultima spiaggia per non ripetere il test una seconda, oppure una terza volta. Forse è per questo che, mossa da ammirabili sentimenti di umana compassione, il Ministro della Salute Laura Grillo, un mese fa, annunciava solennemente l’abolizione del numero chiuso, salvo poi rettificare che “aumenteremo solo i posti” per studiare come superare il superamento dell’attuale modello “nel medio periodo”. Sarà. Del resto, è da quando è stato introdotto il numero chiuso, ovvero dal lontano 1997, che si parla di abolizione, ricorsi, irregolarità.

Quello che però mi fa veramente tremare è l’idea, espressa già altre volte dalla “Ministra”, di adeguarci al modello francese. In Francia infatti non esiste una preselezione, ma un anno preparatorio (PACES) al termine del quale gli studenti devono superare una prova comune sugli argomenti affrontati. Da una parte sono d’accordo sul fatto che il test avvenga su argomenti studiati piuttosto che su conoscenze pregresse del liceo. Dall’altra, però, la possibile adozione del modello francese risolverebbe solo apparentemente i problemi. Infatti, anche rimandando la selezione a test sugli argomenti del primo anno, i nostri cugini d’Oltralpe non hanno risultati migliori dei nostri: nel 2014, su 58.000 iscritti al PACES, solo 7.500 (il 12,93%) sono passati.  

Le ragioni del numero chiuso

Ricordiamo a questo punto perché è stato introdotto il numero chiuso: questa misura risale al 1997, e fu attuata per regolare su base nazionale una selezione che, di fatto, nella maggioranza delle università italiane avveniva sin da metà degli anni Ottanta. Le ragioni sono tanto semplici quanto ovvie: per la qualità dell’insegnamento e la difficoltà nel reperire aule. D’altra parte questa era una scelta inevitabile, almeno per tre aspetti: i primi due riguardano la capienza delle aule e le esigenze su livello nazionale, il terzo le specializzazioni. Per quanto riguarda i primi, se trent’anni fa si è smesso di far accedere tutti indiscriminatamente, è perché l’offerta sovrastava la domanda: c’erano molti più aspiranti medici di quanti camici bianchi fossero effettivamente richiesti nel settore. A questo punto lo Stato ha deciso di non replicare una situazione come quella francese, dove al primo anno le aule riescono a contenere meno del 60% dei frequentanti. Situazioni insomma di sovraffollamento delle aule che ci sono tristemente note.

Questa misura quindi, lungi dal privilegiare pochi, tenta invece di accontentare tutti. Inoltre nel nostro paese è possibile accedere a un’altra facoltà anche dopo aver fallito il test, che solo in Italia può essere sostenuto per più di due volte. Ciò lo rende una misura preferibile agli esami durante l’anno perché privilegia i percorsi alternativi a quello medico. Un’altra accusa che viene mossa al nostro test è la presenza di domande di cultura generale. Bisogna però tenere conto dello spazio esiguo a esse riservato. Prendiamo ad esempio la Spagna, dove un test, anche se non è l’unico elemento, è un criterio per l’iscrizione a Medicina: in esso vi sono 116 domande di cultura generale e soltanto 23 di biologia e chimica. Il nostro esame invece, quest’anno ne proponeva solo 2 su 60, perciò il loro impatto sulla prova è limitato. Interessanti, per chi volesse approfondire, sono poi i test di ammissione in Germania, dove i posti vengono assegnati sulla base di almeno tre criteri (voto di maturità, tempo di attesa e, eventualmente, test); oppure la situazione americana, dove la concorrenza per accedere alle medical school è spietata.

Le specializzazioni

Ma passiamo ora al terzo punto, la criticità che più mette a nudo i difetti del sistema italiano: i contratti di specializzazione. Ben lontani da realtà europee dove è addirittura prevista la possibilità di cambiare specializzazione in itinere, in Italia questo momento di passaggio, che avviene al termine di sei lunghi anni di studi, è come una sorta di secondo, e ancora più difficile, test di ammissione: i posti sono veramente pochi, e quelli non assegnati non vengono nemmeno recuperati, col risultato di diminuire anno dopo anno. A voler pensar male si potrebbe insinuare che il Governo abbia tutto l’interesse a far vertere le discussioni più infuocate sul numero chiuso: nei primi sei anni infatti non è lo Stato a stipendiare lo studente, ma è quest’ultimo a pagare le tasse universitarie, tra le più alte in Europa (2.000€). Ma se poi arrivati alla fine dei sei anni non è possibile avere un ampio accesso a specializzazioni, la laurea viene come sprecata. Questo è uno dei punti più importanti: fare in modo che non vi sia, dopo il numero chiuso, un secondo imbuto formativo.

Non ho ancora spiegato compiutamente la vicenda delle specializzazioni: per farlo devo risalire al 1982, anno in cui, secondo la direttiva europea C-616/16 e C-617/16, l’Italia doveva adeguarsi al resto dell’UE, stabilendo e quantificando l’entità della remunerazione prevista per la specializzazione. Prima di tale data, infatti, non era percepito alcuno stipendio durante il contratto di specializzazione. Ovviamente il Bel Paese, con la solita puntualità, si è adeguato a questa legge solo nel 1991/1992, col risultato che, per quei dieci anni di ritardo, lo Stato Italiano è stato condannato a risarcire centinaia di migliaia di euro a tutti gli specializzandi di quel periodo. Inutile dire che la somma, per molti di loro, non è ancora stata erogata, e non fa che aumentare di giorno in giorno. Altrettanto superfluo osservare che è proprio dagli anni novanta che le specializzazioni iniziavano a diventare fenomeno elitario, destinate a pochi e, comunque, ad essere prese spesso dopo svariati tentativi. Dunque, se deve essere trovata una causa a tutte le sventure che stanno accadendo in ambito sanitario, una buona parte di esse consiste nel non aver mai allargato o quasi, da quel periodo, il numero di specializzazioni.

I costi della sanità

In ultima analisi, possiamo dire che – come spesso accade – è una questione di denaro: lo Stato continua a scommettere pochissimo sulla sanità in Italia. La spesa pubblica per la sanità, in rapporto al PIL italiano, al 2017 ammontava al 6,6%. Per quanto sia stato pianificato, nel triennio 2017-2019, un aumento dell’1,5%, questo è ancora troppo poco rispetto alla media Europea dell’8%, con picchi in paesi come Germania e Francia, entrambe al 9,5/9,6%.

Anche per questo aumenta la spesa sanitaria privata: + 50% dal 2000, con un dato di tre volte superiore a quello francese, che duplica quello inglese e sorpassa di un terzo quello tedesco.

Siamo dunque un paese che investe nelle proprie risorse. A tutti questi dati va aggiunto quello apparentemente paradossale della mancanza di medici: entro il 2023 infatti è previsto, a causa anche della cosiddetta “quota 100”, il pensionamento di 70.000 medici su un totale attivo di 110.500. Ovviamente sarebbe allarmistico dire che siamo prossimi al collasso, anche se le criticità, pur circoscritte, sono numerose. Un esempio è dato dai medici di base: in 15 anni rischia di non essere sostituito il 46% di loro, mentre nell’ultima decade la capacità assistenziale del SSN è passata dal 92 al 77%. Se a questi due dati si somma anche l’avanzata età media del corpo docenti (57 anni), il rischio è che non vi sia una trasmissione di esperienze e pratiche cliniche tra generazioni, fondamentali soprattutto in una disciplina come quella medica. Sono proprio queste le preoccupazioni che hanno spinto, pochi giorni fa, un gran numero di medici in ospedali pubblici allo sciopero.

Le soluzioni

Come abbiamo appena visto, la questione è molto meno teorica e idealistica di un’università per tutti o per pochi: i risvolti economici dettano la maggior parte delle regole. E allora ben venga il numero chiuso se può permetterci di seguire a un ottimo livello i nostri studenti, come credono EJD e UEMS. Concludo cedendo alla parola a chi, da anni, cerca di far valere la sua esperienza pluriennale nel settore: la ANAAO Assomed. Per loro l’Italia, anziché il sistema francese, dovrebbe imitare quanto ha fatto il Portogallo dieci anni fa. Da Lisbona infatti, a quel tempo, arrivarono molti più investimenti per le specializzazioni, pur mantenendo il numero chiuso. Il risultato? La scelta, a distanza di dieci anni, sembra aver funzionato. L’Italia, secondo l’associazione, allo stesso modo dovrebbe investire in specializzazioni nel medio-lungo termine.

Concludo con una nota personale: alla fine, per quanti problemi possiamo rinvenire e per quanti aggiustamenti si debbano ancora approntare, certamente l’Italia è un paese con un sistema sanitario ottimo. Secondo la Classifica Bloomberg 2018 il nostro è il secondo paese europeo, dopo gli spagnoli, il quarto al mondo, per rapporto tra spesa sanitaria e aspettativa di vita. Un dato, questo, che conferma l’assoluta eccellenza del nostro Servizio Sanitario Nazionale. Inoltre, il nostro sistema sistema sanitario è anche libero, aperto a tutti. Per mantenere sia l’eccellenza che la gratuità, però, anziché proclami vaghi e confusi, bisognerà investire ora con un occhio di riguardo per il futuro.

Francesco Faccioli

Sull'autore

Nato nel 2001, vivo in montagna – e vista l'aria che tira non ho fretta di trasferirmi. Con ogni probabilità sono l'unico studente di Lettere Antiche ad apprezzare sia Tha Supreme che Beethoven. Da fuori posso sembrare burbero, ma in realtà sono il più buono (e modesto) della redazione.
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