Sono tanti, sempre di più, gli anglismi che ogni anno entrano nella lingua italiana, al punto che forse si sta perdendo il suo corretto utilizzo. Quali sono gli anglismi più frequenti? Facciamo bene ad averne tanti o impoveriamo la nostra lingua?
Anglicismi, anglicismi ovunque
Vi propongo un esperimento che renderà evidente l’onnipresenza degli anglicismi nel nostro lessico quotidiano.
Frugate nelle vostre tasche e tirate fuori lo smartphone; accendete il lock screen e digitate la password, mi raccomando, stando ben attenti che nessuno vi veda. Ecco, magari coprite un po’ con le mani, così, ché quel signore sulla destra non mi convince, vi guarda come se fosse uno stalker. Dalla home aprite l’ultimo social che avete downloadato, compiacetevi del vostro numero di followers, e visto che ci siete fatevi anche un selfie, giusto per garantirvi un paio di like e magari approfondire un flirt in chat. Ma non fermatevi qui.
Scorrete lo schermo ed entrate in Flipboard, app che, per chi ancora non lo sapesse, come dice Wikipedia, “consente di creare un personal social magazine”. Troverete news di tutti i tipi, dal MIUR che parla alle scuole di coding e team building ai politici che sgomitano al grido di spending review o stepchild adoption.
E poi ci sono gli act: Jobs Act, Digital Act, Green Act, Growth Act, act per tutti i gusti. Che succede? Una notifica? Ah, è Google Calendar, vi ricorda di quel meeting – ma forse era più una convention – sul life coaching, parleranno di skills, tutoring e happiness – imperdibile insomma.
Adesso, se non vi siete accorti di niente c’è qualcosa che non va. E c’è qualcosa che non va anche se vi siete accorti del problema, perché mentre sto scrivendo l’articolo il correttore automatico di Word ancora non mi ha segnato in rosso una parola (“downloadato” compreso).
Una lingua a rischio americanizzazione
È passato poco da Halloween, ennesima manifestazione di quanto ormai da tempo sia influente il modello di vita anglosassone in tutto il mondo, e il confine che separa globalizzazione e colonizzazione culturale è debole sopratutto quando a esserne protagoniste sono potenze economiche del calibro dell’America e del Regno Unito.
Anche quest’anno il gioco del “trick-or-treat” ha coinvolto, fra gli altri, moltissimi bambini italiani, per fortuna ancora nella più rassicurante versione di “dolcetto o scherzetto”.
Che la sera del 31 ottobre però abbia rubato molto dello spazio prima riservato alle nostre ricorrenze tradizionali non è più una novità; se il problema fosse solo quello di fare luce sull’aspetto consumistico che ha assunto una festa aliena nel nostro Paese, si tratterebbe di parlare unicamente di una questione di moda.
Ma l’americanizzazione, ovvero, come la definì il sociologo George Ritzer, la “propagazione di idee, usanze, modelli sociali, industria e capitale americani nel mondo”, non è solo Coca Cola, McDonald, Nike e, appunto, Halloween.
Qui ci troviamo di fronte al caso in cui la moda smette di essere tale e diventa un carattere intrinseco del nostro pensiero. Tanto è vero che l’italiano, il cui vocabolario già è sfruttato in minima parte dalla media dei parlanti, ha accolto negli ultimi anni una grande quantità di termini stranieri, in maggioranza inglesi. Anglicismi che spesso avrebbero equivalenti nostrani altrettanto validi.
La Settimana della Lingua Italiana
In direzione diametralmente opposta si colloca un altro evento di recente data: dal 15 al 21 ottobre si è tenuta la Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, momento di promozione della nostra lingua organizzato dal Ministero degli Affari Esteri, dall’Accademia della Crusca, dagli Istituti Italiani di Cultura, dai Consolati italiani, dalla Società Dante Alighieri e da varie associazioni e università all’estero.
Dal 2001 la Settimana trova visibilità non solo in Italia ma anche in molte altre Nazioni, da quando cioè l’attuale presidente onorario dell’Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, lanciò l’iniziativa.
Numerosissimi infatti sono stati gli eventi dedicati alla lingua del “bel paese là dove ’l sì suona”; oltre agli appuntamenti che abbiamo avuto in Italia, ai conclusivi Stati Generali della Lingua Italiana nel Mondo e all’incontro con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si va dalla tappa del Campiello a Monaco alla presentazione de L’Arminuta di Donatella Di Pierantonio a Praga, all’inaugurazione a Ramallah del nuovo Comitato per la Palestina della Società Dante Alighieri, allo spettacolo musicale Spogliati nel tempo rappresentato a Nizza. Solo per citarne alcuni.
L’adesione di così tanti Paesi non fa altro che confermare ciò che già i dati avevano dimostrato: l’italiano, contrariamente all’idea comune, è la quarta lingua più studiata al mondo; e non dubiterei di trovarne il motivo nella ricchezza di espressioni che compongono il nostro patrimonio lessicale.
Di pari passo vanno dunque il tema selezionato quest’anno, L’italiano e la rete, le reti per l’italiano, e la scelta di offrire durante la Settimana la possibilità di scaricare gratuitamente un “libro elettronico” (così piace alla Crusca) curato da Giuseppe Patota e Fabio Rossi.
Il volume, ora a pagamento, tratta dei pericoli che corre la nostra lingua di fronte all’arrivo in Italia degli anglicismi e degli errori provenienti da internet, senza cadere in allarmismi o luoghi comuni, bensì analizzando sotto vari aspetti le trasformazioni che i nuovi mezzi di comunicazione agiscono sull’italiano.
Un patrimonio in via di estinzione?
Si sente quindi forte la necessità di preservare questo nostro inestimabile patrimonio, a volte messo alla prova dalle sfide del mondo moderno, sempre connesso e ultimamente tendente a una certa pigrizia linguistica; sinonimi ne esisterebbero ma la diffusione internazionale di una vasta terminologia anglofona porta spesso a optare per la scelta più “comoda”.
Tuttavia, sull’esempio del saggio distribuito dalla Crusca, scrivere un articolo che tratti dell’argomento con toni catastrofici, che parli di una presunta “invasione” della lingua inglese, avrebbe lo stesso effetto di una goccia nel mare di notizie poco oggettive dal quale siamo sommersi.
È vero che la maggior parte degli anglicismi che si sono insinuati nel nostro vocabolario quotidiano è superflua; è anche vero però che il proliferare del loro numero è figlio di una tendenza recente.
Al tempo stesso, bisogna ammettere che ci sono termini che, proprio perché legati strettamente a un ambito specialistico, fanno fatica a trovare dei sostituti plausibili nella lingua italiana. Basti pensare al comunissimo “computer”. C’è da dire che in Francia “ordinateur” non è disdegnato da nessuno, ma di fronte a uno “scanner” ci togliamo ogni dubbio. Invece sarebbe bene avere paura quando l’inglese diventa un sistema di facciata, quando cioè trova il suo scopo nell’impressione che genera nell’ascoltatore.
Non sono poche così le volte che si finisce per incappare in storpiature non da poco: fare shopping non è certo la stessa cosa di fare la spesa, significato che il termine avrebbe in inglese. E il medesimo trucchetto che fa sembrare più professionale chi usa “marketing” al posto di “mercatistica” o più cool chi usa “trendy” al posto di “alla moda” è abusato anche in politica. È in quest’ultimo caso che davvero il fenomeno si presenta in maniera dilagante e pericolosa.
La parola è politica
La necessità di guardarsi dal politichese che si fa “inglesorum” (come lo definisce il magazine di Treccani alludendo con ironia al “latinorum” manzoniano) non è motivata semplicemente da un’esigenza di purezza della lingua – che in ogni caso comunque non va estremizzata: il pensiero si esprime a parole e nel momento in cui non conosciamo a fondo una parola il rischio di essere raggirati si innalza vertiginosamente. Un esempio chiaro è quello della voulontary disclosure, ben più oscura e generica nell’intenzione rispetto alla “collaborazione volontaria” che appare negli atti legislativi.
Moltissimi termini dell’“inglesorum” però sono pseudoanglicismi: si tratta di forme ricavate in modo improprio che finiscono, nella loro versione storpiata, per assumere una valenza del tutto diversa da quella di partenza; per esempio la spending review (cioè “razionalizzazione della spesa pubblica”) spesso viene erroneamente abbreviata in spending e prende quindi un significato effettivo vicino ad “azione di spesa”.
E ciò, oltre a far squillare un campanello di allarme per la manipolazione alla quale siamo soggetti, denota anche una scarsa conoscenza della lingua inglese. D’altronde non c’è molto da stupirsi vista la superficialità con cui spesso accettiamo qualsiasi informazione ci venga propinata; e comunque anche una superficialità di questo genere è sintomo di un più generale disinteresse verso ciò che non ci riguarda nell’immediato e nel nostro piccolo.
A lottare in prima linea contro i reali pericoli dell’inconsapevolezza circa le parole straniere entrate nell’uso comune è di nuovo la Crusca, con il gruppo Incipit, di cui fanno parte molti studiosi e specialisti della comunicazione italiani e svizzeri.
Il gruppo, attivo a Firenze, si prefigge di monitorare i forestierismi nel momento del loro ingresso in Paese, di fornirne alternative altrettanto efficaci e adeguate e di stimolare l’attenzione critica dei parlanti, ormai diminuita forse anche a causa della progressiva leggerezza promossa dalla velocità e dalla distanza che le comunicazioni sono in grado di raggiungere.
il gruppo è stato fondato nel 2015 in seguito alla raccolta di 70.000 firme grazie alla petizione indetta da Annamaria Testa #Dilloinitaliano e oggi – mentre sconsiglia e lamenta l’uso di location, performance, car sharing e hot spot – si vanta del successo tutto italiano delle “faccine”, del “cancelletto” e della “chiocciola” a dispetto di emoticon, hashtag e at.
Una ricchezza da preservare
È dunque indispensabile riflettere sulle parole, sul loro significato profondo, perché è in esse che, seppur celata, risiede la visione che diamo alla realtà che ci circonda.
La definizione di lingua è essa stessa già contenuta nell’etimologia del termine “idioma”: idios in greco antico significa “proprio”, quindi la lingua è ciò che è proprio di ciascun popolo, accomuna coloro che ne fanno parte e lo distingue da tutti gli altri perché il modo di parlare aderisce alla mentalità della propria cultura, diversa anch’essa da quella degli altri popoli.
Sembra un paradosso, eppure non è la prima volta che gli antichi si rivelano moderni: infatti, sempre proseguendo su questa linea, in greco il vocabolo atto a indicare la “parola” (logos, da cui “logopedia”, “neologismo”, “logica”) viene utilizzato per indicare il discorso e contestualmente il ragionamento, il “pensiero”.
La relazione di stretta corrispondenza che unisce fra di loro parola e pensiero, riconosciuta dagli antichi e ancora oggi estremamente valida, trova appunto espressione, quando è inserita in un contesto che si riferisca all’identità di un popolo, appunto nell’idioma che gli appartiene. Manzoni comprese la necessità di una lingua comune al tempo in cui l’Italia non era altro che una penisola geograficamente unita eppure disgregata in una miriade di staterelli soggetti al dominio di popoli stranieri.
Il fatto che adesso si sia sempre più indulgenti nei confronti della preponderanza con cui i forestierismi si impongono nel nostro linguaggio ci dovrebbe mettere in guardia su quanto sia importante conoscere e preservare la bellezza, la varietà e l’unicità dell’italiano: non potrebbe forse essere questo uno dei primi segni della progressiva perdita di identità, nazionale ma anche soggettiva, della quale siamo vittime inconsapevoli e alla quale ci sottopone la vastità e insieme l’uniformità che sta assumendo il globo?
Elisa Ciofini
Per approfondire la questione degli anglicismi nella lingua italiana, visita la sezione Linguistica del sito!